di David Lynch, Usa, Francia, 1999, 112′
con Sissy Spacek, Harry Dean Stanton, Richard Farnsworth, Everett McGill, Jane Galloway Heitz
Laurens, Iowa. Alvin Straight, settantatreenne che vive con la figlia Rose, viene a sapere che il fratello Lyle, con cui non parla da dieci anni, ha avuto un infarto. Prima che sia troppo tardi, decide di intraprendere un viaggio fino a Mount Zion, in Wisconsin, per incontrarlo. Non in corriera o in treno, perché Alvin vuole guidare da solo, con i suoi tempi e i suoi modi. Non avendo più una patente, non gli resta che guidare un tosaerbe con rimorchio e assaporare con lentezza le meraviglie del Midwest americano.
Introduzione e commento con Arianna d'Erasmo.
Dalle 19:00 è possibile cenare. Cosa bolle in pentola?
Costo €15 bevande escluse
Prenotazione necessaria via sms/Whatsapp al 327 7034745 entro le 12:00 del 28/03/2024
Da sempre, nel cinema di Lynch, l'orrore e la redenzione, la luce e l'ombra, la violenza e la nostalgia sono compenetrati, rappresentano le due facce della luna. Solo che un tempo il viaggio nelle tenebre era la premessa per tornare alla luce (i pettirossi del finale di Velluto blu e l'arcobaleno di Cuore selvaggio, che sotto l'amara ironia tradivano una sincera tensione etica). Oggi invece l'itinerario di Alvin si svolge alla luce del sole, ma non per questo il buio e il dolore cessano di pesare sul quadro: l'infelicità, la malattia, la bizzarra crudeltà dell'esistenza rimangono presenti. Né sparisce l'inquietudine sottile e impalpabile che permea le inquadrature: la natura non più nemica mantiene tuttavia la sua orgogliosa estraneità, e su tutto aleggia un senso di morte. Insomma, rimane il tocco di Lynch, il suo sguardo 'perturbante' in senso freudiano, cioè la sua capacità di guardare con tale intensità un personaggio o un oggetto da farli apparire fastidiosi, fuori posto, minacciati da qualche oscura presenza (vedi il bellissimo piano sequenza iniziale, o il misterioso rimbombo che Alvin ode mentre attraversa il ponte sul Mississippi). [...]
Se c'è un rovesciamento totale, invece, è rispetto alle convenzioni del road movie: Lynch sceglie la vecchiaia al posto della gioventù, la lentezza invece della velocità, il progetto al posto della deriva. [...] Sotto l'apparente dolcezza, The Straight Story è un film serio e severo. Un film sulle cose per cui vale la pena di vivere, che non sono certo le sorsate di birra, le partite di calcio e altre inezie adolescenziali. È un film adulto, mai sentimentale, sulla necessità di perdonare e di fare i conti con il proprio dolore. Sul bisogno di stare zitti, di mettersi in cammino e saper guardare dritto. È un film che valeva la pena di fare, e questo è già molto. Anzi, è tutto.
Vincenzo Buccheri, "Segnocinema", n. 102, marzo-aprile 2000