di Jean-Luc Godard, Francia, 1960, 89′
con Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulanger, Jean-Pierre Melville, Henri-Jacques Huet
Michel Poiccard ruba un'automobile a Marsiglia e poi uccide un poliziotto che lo stava inseguendo. Arriva a Parigi e rivede Patricia, una studentessa americana di cui è innamorato e con cui vorrebbe condividere la sua vita spericolata. Intanto le forze dell'ordine gli danno la caccia e lui capisce che gli stanno alle costole dopo che la sua foto compare su "France Soir". Cerca di così di fuggire cercando di portare con sé la ragazza in Italia. Patricia però decide di non seguirlo e alla fine lo denuncia alla polizia.
Cineteca di Bologna - Parigi 1959, il centro del mondo. Godard dirige, Truffaut scrive. Belmondo/Poiccard, piccolo omicida, corre a perdifiato per sfuggire alla polizia e a cinquant’anni di cinema di papà; Jean Seberg vende l’“Herald Tribune” sugli Champs Elysées, s’innamora, lo tradisce: ‘déguelasse’. Poco budget, molto amore per il B-movie americano, sguardi in macchina, jump-cuts, l’euforizzante sensazione che tutto sta per ricominciare. Irripetibile, e forever young. “Fino all’ultimo respiro appartiene, per sua natura, al genere di film in cui tutto è permesso. Per di più Fino all’ultimo respiro era il genere di film in cui tutto era permesso, era nella sua natura. Qualsiasi cosa faccia la gente, tutto poteva essere inserito nel film. È proprio questa l’idea da cui ero partito. Pensavo: c’è già stato Bresson, è appena uscito Hiroshima, un certo tipo di cinema si è appena concluso, forse è finito, allora mettiamo il punto finale, facciamo vedere che tutto è permesso. Quello che volevo era partire da una storia convenzionale e rifare, ma diversamente, tutto il cinema che era già stato fatto”. (Jean-Luc Godard)
Sentieri Selvaggi - Nella sua apparente linearità narrativa, Fino all’ultimo respiro è un complesso gioco attraverso l’esigenza estremizzata di una rottura formale, che, liberandosi del linguaggio filmico classico, dopo averlo coscientemente introiettato e profondamente amato, diventa nuova modalità espressiva basata sulla frattura, sulla contraddizione, sullo svelamento stesso della finzione, in modo da distogliere violentemente lo sguardo dello spettatore dal suo sonno acritico e passivo. Godard si nutre dell’universo del cinema noir dal quale mutua l’intreccio, sul quale ricalca il personaggio di Poiccard/Kovàcs, dal quale prende in prestito Jean Seberg come volto scelto da Preminger, al quale per tutta la durata del film continua a riferirsi in un fitto susseguirsi di citazioni più o meno esplicite, mettendo in scena, oltre il sincero omaggio, la volontà di liberarsi di ogni costrizione narrativa o convenzionalismo stilistico.