di Jonathan Nossiter, Italia, Francia, 2020, 125′
con Nick Nolte, Kalipha Touray, Charlotte Rampling, Alba Rohrwacher, Stellan Skarsgård, Silvia Calderoni, Maryam D’Abo, Osemwenoghogho ‘Victory’ Wilfred, Kane Moussa, Jun Ichikawa, Vincenzo Del Prete, Abdoulay Traoré
2085. Non c'è più elettricità sulla Terra. Il pianeta è un vasto deserto. Le coltivazioni non crescono più e nessun bambino è venuto al mondo negli ultimi dieci anni. Per gli ultimi sopravvissuti che ancora hanno la forza di ascoltare, arriva una misteriosa "Chiamata": bisogna incontrarsi ad Atene. Jo, un ragazzo di 17 anni dalle origini africane, diventerà l'ultimo regista, l'ultimo testimone dell'ultimo uomo sulla terra. Attraverso le strade deserte d'Europa che conducono ad Atene, Jo porta con se un tesoro enigmatico: una serie di bobine che portano tutte l'iscrizione "Cineteca di Bologna".
Dal romanzo Mes derniers mots (2015) di Santiago Amigorena.
Il film è stato girato tra il Parco Archeologico di Paestum e la Bologna sotterranea
Sentieri Selvaggi - Per Nossiter, anche ai limiti del baratro, il cinema rappresenta ancora una volta una sorta di salvezza, l’unica e ultima forma di resistenza per dirsi ancora umani. La disperazione del giovane protagonista, spinto più dall’inerzia e dall’istinto che dalla consapevolezza e la voglia di sopravvivere, trova una qualità diversa e cambia diametralmente tra le bobine dimentica della Cineteca, tra i poster del Cinema Ritrovato (in un momento meta-cinematografico straniante), nelle parole e nei ricordi sfatti del buon Nick Nolte, ex regista rassegnato, che gli consegna i mezzi per aggrapparsi a qualcosa, per dirsi ancora vivi. Il cinema, la cinepresa, la pellicola, lo Sshermo diventano così un kit di sopravvivenza mentale, fisica, filosofica.
È possibile un film utopico postapocalittico? Il mondo nel 2086. L’Europa è un deserto. Non c’è più natura. Solo lattine di cibo in polvere per gli ultimi sopravvissuti. Non c’è più cultura. Tranne qualche frammento di cinema sotto le macerie di ciò che rimane di Bologna. E i templi antichi ad Atene. Niente più socialità, neppure la memoria di una stretta di mano. Un mondo senza speranza? No! Grazie alle magiche risorse dell’immaginazione umana.
Last Words è un film che si confronta con il potere distruttivo delle catastrofi ecologiche senza perdere il coraggio della tenerezza e la gioia dello stare insieme per raccontarci delle storie. Urgenti.
Come l’ultimo uomo sulla Terra nel 2086: un giovane africano, l’ultimo africano. Impersonato dal non attore Kalipha Touray, un rifugiato gambiano che a sedici anni ha già assistito alla fine del mondo nella vita reale. Insieme al mitico attore Nick Nolte – che interpreta un regista d’altri tempi –, nel film riscoprirà il cinema. E dunque il senso della vita: il piacere di stare insieme (dopo una lungo periodo di isolamento), l’amore per la cultura (dopo anni di barbarie), per la bellezza (dopo tanto orrore). Soprattutto riscoprono l’importanza di mantenere viva la memoria. Perché, alla fine del mondo, tutto diventa importante. Come l’ultima gravidanza sul pianeta, portata avanti dall’iconica e venerabile Charlotte Rampling, una donna baltica di incerte origini. E dal futuro altrettanto incerto. O gli atti di eroismo o follia – del medico polacco Stellan Skarsgård.
I personaggi di Kalipha e Nick, nel loro epico viaggio verso Atene, portano con loro l’ultimo proiettore per condividere la gioia del cinema, e i pezzi per costruire l’ultima cinepresa. L’ultimo home-movie. L’ultima testimonianza degli ultimi atti della specie. Ad Atene scoprono anche il laboratorio giardino di Alba Rohrwacher, che cerca di far rinascere la natura e salvare l’umanità, prima che tutti muoiano a causa di un virus. Last Words. Un film di fantascienza post-apocalittico o una rappresentazione dell’ultima chance che oggi l’umanità ha oggi di sopravvivere?
Jonathan Nossiter