di Robin Campillo, Francia, 2017, 135′
con Adele Haenel, Aloise Sauvage, Antoine Reinartz, Ariel Borenstein, Arnaud Valois, Catherine Vinatier, Félix Maritaud, Jean-François Auguste, Médhi Touré, Nahuel Pérez Biscayart, Saadia Bentaieb, Simon Bourgade, Simon Guélat, Théophile Ray
All’inizio degli anni Novanta i militanti di Act Up-Paris moltiplicano le azioni e le provocazioni contro l’indifferenza generale. L’indifferenza che circonda l’epidemia e i malati di AIDS. Gay, lesbiche, madri di famiglie si adoperano con dibattiti e azioni creative, non violente ma sempre spettacolari, per informare, prevenire, risvegliare le coscienze, richiamare la società alle proprie responsabilità. In seno all’associazione, creata nel 1989 sul modello di quella americana, Nathan, neofita in cerca di redenzione, incontra e innamora Sean, istrionico attivista e marcatore della progressione del virus. Tra conflitti e strategie da adottare Nathan e Sean vivono forte il tempo che resta.
Mymovies.it 120 battiti e centotrentacinque minuti è il tempo (e il ritmo) necessario a Robin Campillo per richiamare un’epoca (gli anni Novanta) e fare esistere pienamente un gruppo, gli attivisti di Act Up-Paris accaniti e tenaci a combattere la passività dell’opinione pubblica intorno all’AIDS. Diventare sieropositivi in quegli anni equivaleva a una condanna a morte, a breve o lunga scadenza.
Robin Campillo scommette sul collettivo e segna una grande opera politica che interpella le istituzioni con azioni energiche e simboliche.
Avvitato intorno alla parola politica, il film invita lo spettatore ai dibatti interni dell’associazione e a partecipare alle opposizioni morali e di stile (violenza, spettacolarizzazione, grevità, gaytudine), 120 battiti al minuto lotta, urla, dibatte, lancia gavettoni di vernice rossa sui responsabili dei laboratori farmaceutici che si fanno pregare per rendere pubblico lo stato della ricerca contro il virus. Fatti reali che qualcuno là fuori ha conosciuto e a cui il regista francese dona una forma che emoziona con rigore, senza scadere nell’aneddoto e lontana dalla fascinazione arty per il dolore.
Cineforum.it. «Che lavoro fai? Sono sieropositivo, tutto qua». E infatti 120 battiti al minuto è un film sul lavorare all’identità della propria malattia. Nient’altro. Riconoscerla, darle un nome, portarla in pubblico. Fare lavorare anche lei, la malattia stessa: permetterle di acquistare rilevanza politica, farle fare una differenza. Reagire ad essa, reagire all’eventualità del disinteresse, toglierle ogni pudore.
Robin Campillo indovina il tono, e rende completamente impudico ciò che poteva essere soltanto un cosiddetto “ritratto”. Finalmente, ancora, era ora!, un film fatto di sangue e di parole, sangue che riempie la Senna e parole che non trovano il loro giusto verso; fatto di sperma e di siringhe, di flebo e di corpi, corpi sessuali e corpi retorici (ma della retorica migliore, quella che crea una società e caratterizza la persona). Un film fatto di collera e di amore, di indecenza e di azione, di qualche speranza e di una realtà più pesante del dolore.
Filtv.press. Robin Campillo – che aderì al movimento nel 1992 – non compie un’operazione storica, ma sceglie una via fieramente retorica e didascalica, in linea con il lavoro di scrittura svolto per quasi tutti i film di Laurent Cantet.
(…) Campillo ricorre a una lingua quasi elementare (i coriandoli rosa trasformati in virus al microscopio, la Senna tinta di rosso sangue), usa uno stile nervoso per le scene pubbliche e uno sguardo ravvicinato e amorevole per quelle private. Fa collidere le due anime del suo film e nel momento della morte, ripresa nella sua assoluta crudeltà, così come il sesso è ripreso nel suo assoluto piacere, le fa coincidere: il dolore privato si fa allora testimonianza collettiva, e la solitudine diventa necessaria partecipazione.