di Amanda Kernell, Svezia, 2016, 110′
con Lene Cecilia Sparrok, Maj-Doris Rimpi, Mia Erika Sparrok, Julius Fleischanderl, Olle Sarri.
La quattordicenne Elle Marja è una ragazzina sámi [làppone] che vive in una comunità di
allevatori di renne. Esposta alla discriminazione degli anni ‘30 e alla certificazione della
razza per frequentare la scuola, inizia a sognare una vita diversa. Per realizzare questo
desiderio, però, dovrà allontanarsi dalla sua famiglia e dalla cultura della sua gente
diventando un’altra.
Mymovies.it. Discendente dalla comunità Sami da parte paterna, la regista svedese Amanda Kernell racconta la storia di un razzismo poco conosciuto e raramente rappresentato al cinema, se non in rari film come The Cuckoo (2002) del regista russo Alexander Rogozhkin. Eppure gli indigeni del nord della Norvegia, Svezia ed altri Paesi Scandinavi sono a lungo stati vittima di intolleranza etnica e di una sistematica soppressione culturale. Sami Blood dunque, è un'intensa storia di discriminazione e di riscatto interamente raccontato in un lungo flashback dalla protagonista che, ormai anziana, ritorna nella sua terra per il funerale della sorella e si abbandona ai ricordi. Nel tempo sospeso della memoria si svolge il racconto che dal rimosso dell'inconscio riemerge su delle note dolci amare in una persistente visione.
Filmtv.press. Lo script di Sami Blood racconta di un coming of age in una comunità reietta, sottoposta a dileggio, pregiudizio, curiosità e talora abuso. Con tutto ciò che è lecito attendersi (oltre a una tripartizione degli atti mascherata) dal sottogenere, piuttosto diffuso in ambito festivaliero. Ma a visione avvenuta alcune trovate visive persistono, lasciando intuire dove possa arrivare il talento di Kernell quando si libera dai lacci del copione. L’attimo in cui Christina intravede le sue future compagne di classe, per esempio, con il contrasto tra queste ultime, aggraziate come giunchi, e lei stessa, somigliante a un goffo Calimero; oppure gIi scatti di una macchina fotografica che sembra assestare sferzate al corpo nudo e offeso della ragazza, studiata alla stregua di un animale in cattività. Come insegnava anche Radu Jude in Inimi cicatrizate, il decennio dei totalitarismi non fu tale solo per la Germania nazista. Il virus del razzismo attecchiva in tutta Europa, fissando la diversità genetica come discrimine per imporre una gerarchia alla specie umana. Notevole il volto di Lene Cecilia Sparrok, che sostiene da sola il peso di una minoranza vilipesa e dimenticata.
Silenzioinsala.it. Non tutti sono a conoscenza di che cosa la Norvegia, la Svezia e La Finlandia fecero al popolo Sami. I Sami, da non confondere con i Lapponi, sono gli antichi abitanti dell’estremo Nord della Svezia e della Finlandia; un fiero popolo di allevatori di renne, dotato di una spiritualità profonda e sciamanica legata al culto della Madre Terra. Le suggestive canzoni intonate dalla protagonista del film, richiamano gli animali e parlano direttamente la lingua delle valli e dei boschi sconfinati, fin nella profondità delle fredde acque dei laghi. (...) Ogni gesto è carico di dolore, e la giovane regista Amanda Kernell, alla sua opera prima, lo sa raccontare. La sua regia si accorda con la recitazione di Lene Cecilia Sparrok, misurata e al contempo esplosiva, e va di pari passo con la bellezza dei panorami svedesi, composti, freddi, eppure immensi e indomiti.
Sami Blood è risultato il vincitore del LUX Prize, il prestigioso premio cinematografico assegnato annualmente a un film di produzione europea dal Parlamento Europeo. Ed è un film che va visto e fatto assolutamente vedere anche ai ragazzi, dalle scuole medie in su, non solo perché parla di discriminazione fra esseri umani, ma perché la protagonista riuscirà, attraverso un percorso sofferto fatto di rimozioni e di ricordi, a trovare finalmente se stessa.
Cineforum.it. Sami Blood non è semplicemente un dramma semi-autobiografico, né pare esaurirsi in un film di mera denuncia sociale. Il lavoro di Amanda Kernell non si accontenta, ma ricerca – e trova – un che di nuovo, che sembra corrispondere piuttosto a un recupero atipico del genere western e alla sua ricollocazione in un nord Europa senza tempo. Lo scontro di due civiltà – gli indigeni lapponi (Sami) e gli svedesi – sembra passare necessariamente per una dicotomia che molto si avvicina all’opposizione fondamentale del western classico, quella tra una wilderness fatta di natura, purezza e sensazioni e una civilisation chiusa tra i confini di una città e di un complesso di norme e pregiudizi passivamente accettati. Un’antitesi che tuttavia rimane incapace di risolversi in una sintesi; la distanza è una frattura irrimediabile, tanto nella storia ambientata negli anni Trenta – che recupera esperienze di vita reali vissute dalla nonna dell’autrice – quanto nella porzione contemporanea che apre e chiude il film in una bolla di malinconia e sconforto che ha un sapore amaro.
NOTE DELLA REGISTA
Sono una sámi e nella mia famiglia ci sono molte persone, anche anziane, che disprezzano
questa razza, sebbene anche loro vi appartengano. Sono cresciute madre lingua sámi,
allevando renne, ma ora hanno cambiato i loro nomi, sono diventate persone diverse e
non vogliono più avere niente a che fare con i sámi. Mi sono sempre chiesta che cosa sia
accaduto e perché queste persone si siano trasformate in questo modo e come sia
possibile tagliare tutte le radici con le proprie origini, con la propria famiglia e con la
cultura da cui si proviene. Tuttavia so bene che le generazioni più vecchie sono cresciute in
un’epoca in cui, in questi collegi per bambini sámi, si compivano studi sulla diversità
biologica delle razze; per questo motivo in molti hanno cambiato la loro identità e se ne
sono andati.
Sámi Blood, dal punto di vista della protagonista Elle Marja, è una dichiarazione d’amore
sia per coloro che sono fuggiti sia per coloro che sono rimasti. Volevo fare un film
attraverso cui poter vedere la società sámi dall’interno, un film attraverso cui sperimentare
il capitolo più oscuro della storia coloniale svedese, nel modo più fisico possibile. Un film
fatto di sangue e yoik [forma di canto della tradizione làppone].
La parte più oscura della storia del colonialismo svedese è ben nota alla comunità sámi,
ma non è per niente conosciuta dalla comunità svedese e più in generale dal resto del
mondo. Mi riferisco in particolare al fatto che la Svezia abbia creato il primo istituto statale
al mondo di biologia razziale, che ha poi ispirato i tedeschi, ma nessuno conosce questa
verità.
Nei collegi la lingua sámi non era permessa, i bambini erano portati via dai loro genitori ed
erano costretti a parlare svedese. Non sono solo cresciuta vivendo sulla mia pelle queste
dinamiche, ho in seguito compiuto delle profonde ricerche sull’argomento, leggendo anche
vecchi documenti di politici svedesi e dell’istituto statale di biologia razziale, intervistando
gli anziani della mia e di altre famiglie sámi sulla frequenza scolastica a scuola, sulle scelte
che hanno dovuto compiere e ascoltando anche aneddoti e punti di vista personali.
I SÁMI
I sámi, tradizionalmente detti làpponi, sono una popolazione indigena di circa 75.000
persone. Hanno una loro cultura e una loro lingua. Abitano nella regione del Sápmi, divisa
dalle frontiere di quattro stati: Norvegia (40.000 sámi), Svezia (20.000), Finlandia (7.000)
e Russia (2.000).
Un tempo erano principalmente allevatori di renne, pescatori e cacciatori nomadi,
abitavano in capanne coniche trasportabili, chiamate kota, o in tende chiamate lavvu. Il
modo di vivere nomade è finito negli anni ‘50.
Con la Seconda Guerra Mondiale, la società làppone ha subìto drastici mutamenti che, pur
non destrutturandone l’organizzazione, hanno profondamente mutato le sue basi
economiche e materiali. L’allevamento della renna, affiancato a quello di ovini e bovini, è
oggi condotto prevalentemente in modo stanziale e su basi industriali. L’agricoltura,
sebbene difficile da praticare, ha gradualmente preso piede, grazie all’introduzione di
coltivazioni industriali che riescono ad adattarsi a quei climi (per es., il tabacco).
Nonostante tali cambiamenti, i làpponi mantengono una forte identità culturale e, pur
usufruendo dei servizi offerti dai diversi contesti statali nei quali sono inseriti, hanno
evitato, nel corso degli ultimi decenni, di cadere vittime di un processo di totale
assimilazione ai modelli svedesi, norvegesi e finlandesi.