di Giovanni Veronesi, Italia, 2018, 109′
con Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea, Sergio Rubini, Rocco Papaleo, Margherita Buy
1650 (o suppergiù). Dopo trent'anni di onorata attività al servizio della casa reale i quattro moschettieri hanno abbandonato il moschetto e sono invecchiati: D'Artagnan fa il maialaro e ha il gomito dello spadaccino, più un ginocchio fesso; Athos si diletta con incontri erotici bisex ma ha un braccio arrugginito e un alluce valgo; Aramis fa l'abate in un monastero e non tocca più le armi; e Porthos, dimagrito e depresso (ma lui precisa: "Triste e infelice"), è schiavo dell'oppio e del vino. Ciò nonostante quando la regina Anna d'Austria, che governa una Francia devastata dalle guerre di religione al posto del dissennato figlio Luigi XIV, li convoca per affidare loro un'ultima missione, i moschettieri risalgono a cavallo, di nuovo tutti per uno, e uno per tutti.
filmtv.press. Vero che Veronesi firmò, da sceneggiatore e regista, Il mio West con Leonardo Pieraccioni, ma il mito dei tre moschettieri (più uno), così abusato dal cinema e così apparentemente lontano dai gusti delle nuove generazioni, era ancora più difficile da rielaborare. Moschettieri del re dimostra che se il cinema italiano popolare di oggi fa più fatica di quello di ieri (il riferimento a L’armata Brancaleone lo fa lo stesso Veronesi) non è perché mancano gli attori. Qui funzionano tutti, dai moschettieri, ognuno con i suoi tempi (comici), agli altri, in particolare la cortigiana Matilde Gioli e il servo muto Lele Vannoli. Gli intoppi sono più che altro di regia, non sempre perfettamente al servizio delle schermaglie (fisiche e verbali). Eccessivo l’utilizzo dei droni per riprese aeree che vorrebbero dare epicità a luoghi e cavalcate e sono invece, dopo un po’, ripetitive e stucchevoli. Ci si diverte però; alcune figure secondarie sono particolarmente azzeccate (penso a Luis Molteni in versione Q, l’immaginario è quello bondiano) e funziona il miscuglio di idiomi, con Favino a parlare come Amanda Lear incrociata a Boškov, in un argot inventato e azzeccato.