di Álvaro Brechner, Francia, Argentina, Spagna, 2018, 123′
con Antonio de la Torre, Chino Darín, Alfonso Tort, Soledad Villamil, Sílvia Pérez Cruz
Settembre 1973. L'Uruguay è sotto il controllo di una dittatura militare. Il movimento di guerriglia dei Tupamaros è stato schiacciato e smantellato da un anno. I suoi membri sono stati imprigionati e torturati. In una notte di autunno, nove prigionieri Tupamaro vengono portati via dalle loro celle nell'ambito di un'operazione militare segreta che durerà 12 anni. Da quel momento in poi, verranno spostati, a rotazione, in diverse caserme sparse nel Paese e assoggettati a un macabro esperimento; una nuova forma di tortura mirata ad abbattere le loro capacità di resistenza psicologica.
filmtv.press. La violenza di stato si imprime sui loro corpi e ne sfigura i connotati - come Hunger e Sulla mia pelle, siamo di fronte a un body horror carcerario, in cui la politica si stampa sulla carne come un tatuaggio - ma soprattutto si espleta, prima ancora che nel divieto di agire, nell’interdizione a guardare. I rapporti di potere si materializzano in asimmetrie scopiche: lo sguardo delle istituzioni è una panoramica a 360° (il carcere come panopticon), quello dei prigionieri, sempre incappucciati, brancola nel buio. Poco a poco le pupille si adattano all’oscurità, e si intorpidiscono durante il lungo sonno della ragione e della democrazia. Anche le coscienze si annebbiano, ma solo per un momento: José Mujica sviluppa una paranoia da stress che lo porta sull’orlo della follia, ma diventerà il presidente dell’Uruguay nel 2010. Poi la tensione si stempera. Cominciano i flashback, le venature di cupissimo umorismo, persino un’improbabile sottotrama rosa. Si riprende a respirare, ma il discorso perde forza, politica e cinematografica. Álvaro Brechner si dimostra capace di felici intuizioni, non è privo di ironia e si sa muovere sul terreno sdruccioloso del grottesco (come già in Mr. Kaplan e Mal día para pescar). Gli manca solo una cosa: il coraggio della radicalità.
quinlan.it. Un film di una semplicità disarmante: frutto di anni di lavoro e di conversazioni con i veri protagonisti della terrificante prigionia, il film restituisce, con la sua preziosa linearità, una precisione essenziale interrotta qua e là, appunto, da qualche “episodio”, ma strutturata su una scelta stilistica assolutamente chiara e netta. Così anche la liberazione arriva, preannunciata certo dal ritorno alla prigione di Stato da cui eravamo partiti, senza fragore e retorica. E proprio per questa scelta sobria, il racconto della detenzione del futuro Presidente e dei suoi compagni commuove senza ricatto, sciogliendosi catarticamente nell’abbraccio ai cari che segna il ritorno alla vita.
Con una semplice e vacua formula si potrebbe dire che Una notte con 12 anni è un film “importante”, che racconta la forza dell’umanità e la forza della ragione, in varie accezioni, che non si spegne neppure con 12 anni di buio. Ragione e “immaginazione”, come ha ripetuto più volte il regista, perché senza immaginazione si perde tutto, non si può ricordare, ridisegnare e concepire il senso, strutturare l’identità. Ma al di là di questo nobile intento, il film riesce soprattutto a essere un’operazione intelligente e mirata sull’interiorità, la più vasta e misteriosa delle risorse. Il sorriso, la statura morale e le parole di Mujica – simbolo di lotta meno celebre di Mandela, ma la cui parabola non è poi troppo differente – sono ancora qui a ricordarcelo.