di Jia Zhangke, Cina, Francia, Giappone, 2018, 138′
con Zhao Tao, Liao Fan, Zheng Xu, Casper Liang, Feng Xiaogang, Yinan Diao
Datong, 2001. Qiao e Bin gestiscono una bisca, finché un agguato attenta alla vita di Bin. Per salvarlo Qiao spara in aria e viene arrestata. Uscirà di prigione cinque anni dopo, ma Bin ha cambiato vita a Fengjie e non vuole più vederla.
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LE TRE ETÀ dei due protagonisti – Bin è l’attore Liao Fan – attraversano lo Yangtze, il set delle dighe a venire di Still Life, con le sue città di gradini che attendono di essere inghiottite dall’acqua, forse ritrovano il sentimento ribelle di Unknown Pleasure e i gesti irruenti di Platform. Texture, grana, abiti, musiche, colori – la fotografia è di Eric Gautier – restituiscono il sentimento dei cambiamenti. Forse è anche autoritratto I figli del fiume giallo, il racconto della giovinezza e della sfida di un fare cinema che, con la stessa ostinazione di Qiao, continua a cercare nuove e possibili scommesse.
Soffermarsi ancora su quei luoghi a distanza è un modo per riguardarli, per cogliere dettagli, sfumature impreviste che sono sfuggite e che offrono invece chiavi importanti rispetto al presente. E al futuro. Dice Jia Zhang-ke: «La città del mio primo film, Pickpocket è stata demolita. Il decor naturale di Still Life e le cittadine intorno presto saranno completamente scomparsi. Le fabbriche di 24 City non esistono più. Questi drastici mutamenti rendono ancora più necessario il compito del cinema che è quello di opporsi all’oblio…». Le immagini e le storie. L’ultima scena di I figli del fiume giallo mostra la vita della protagonista e ciò che la circonda attraverso una telecamera di sorveglianza. C’è la malinconia di qualcosa che si è perduto e insieme la dichiarazione di un movimento che continua: la volontà di una resistenza come quella di Qiao , fedele ai suoi principi nonostante tutto, il piacere di una forma poetica che destabilizza. Con dolcezza.
quinlan.it. il titolo cinese ci dice molto di più di quello internazionale: come già accadeva ad esempio per Still Life che ha in patria un titolo completamente diverso (Sānxiá hǎorén, che si può tradurre come Gli uomini buoni delle Tre Gole), Ash Is Purest White/I figli del Fiume Giallo si intitola in mandarino Jiānghú érnǚ, vale a dire Figli della Triade, o anche Figli di una minoranza, di un residuo, o persino Figli di fiumi e laghi, visto che jiānghú significa letteralmente fiumi e laghi e poi il suo significato si è allargato nel tempo, a includere tutto ciò che è contrario al mainstream. E, per un gioco di specchi potenzialmente infinito, il titolo cinese non è di Jia, ma appartiene a un progetto irrealizzato di Fei Mu, lo storico autore di Spring in a Small Town (1948), regista amatissimo da Jia. Un film che poi si fece nel ’52, dopo che Fei Mu era già morto, e che nulla ha a che vedere con il film di Jia, ma serve – come dire – a segnare e a sottolineare un legame, una radice evidentemente necessaria, una continuità con il cinema del proprio paese che appare indispensabile per continuare a sentirsi parte di un immaginario visivo e a percepire una qualche forma di filiazione. Perché, come succede in una scena geniale del film, si può rischiare in un bel momento di ritrovarsi a essere totalmente fuori dal proprio tempo, quando la cellula di una porta scorrevole non ci riconosce in quanto esseri umani e non percepisce la nostra corporeità. E allora, se tutto è immagine, se tutto è simulacro, se la vita di Qiao si rivela essere banale e comunissima come una modesta canzone d’amore pop, cosa ci resta? Quell’immagine stessa, quel ricordo di un tempo in cui le storie d’amore sembravano avere una loro profondità e una loro drammaticità, e in cui il reale ancora esisteva.