di Julian Schnabel, USA, 2017, 110′
con Willem Dafoe, Rupert Friend, Oscar Isaac, Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner
È di sole che ha bisogno la salute e l'arte di Vincent van Gogh, insofferente a Parigi e ai suoi grigi. Confortato dall'affetto e sostenuto dai fondi del fratello Theo, Vincent si trasferisce ad Arles, nel sud della Francia e a contatto con la forza misteriosa della natura. Ma la permanenza è turbata dalle nevrosi incalzanti e dall'ostilità dei locali, che biasimano la sua arte e la sua passione febbrile. Bandito dalla 'casa gialla' e ricoverato in un ospedale psichiatrico, lo confortano le lettere di Gauguin e le visite del fratello. A colpi di pennellate corte e nervose, arriverà bruscamente alla fine dei suoi giorni.
ilmanifesto.it. Gli episodi famosi e noti della vita di Van Gogh ci sono tutti, compresi l’unica recensione entusiasta avuta in vita da parte di George-Albert Aurier, ma l’attenzione del regista è sull’atto creativo, sul suo modo così personale di mettere il colore, di lavorare a grande velocità, sulla capacità di cogliere nella natura qualcosa di nuovo in quel che pure si è visto tante volte. Qui però Julian si lascia troppo affascinare dall’essere collega di Vincent, si perde nella lucida e geniale follia creativa di Van Gogh, aggiunge anche un po’ di senno di poi, a proposito del fatto che sarebbe stato capito in futuro. All’inizio del film vediamo un campo di girasoli appassiti su un terreno inaridito, forse sono i nostri tempi, disposti a cacciare milioni per il quadro di un artista che non era mai riuscito a venderne uno in vita. Un paio d’anni fa vennero ritrovati su un quaderno decine di disegni di Van Gogh. Valore inestimabile o falso colossale? Schnabel ci gioca narrativamente, come ha fatto con Willem Dafoe, magnifico «sosia» del grande Vincent, ma anche ottimo interprete in una parte complessa. Per gli altri solo camei.
mymovies.it. Anima errante nel bagliore dei colori e nell'oro dei campi, van Gogh non poteva dimorare, non poteva seguire una norma di comportamento o creare una famiglia come il fratello Theo. Nel suo stile paranoico e tempestoso, Antonin Artaud scriveva che era stata la società a uccidere Van Gogh. Senza affermare le cose in maniera così tranchant, Schnabel incarna tuttavia i colpevoli rovesciando la tesi del suicidio e interpretando in maniera troppo didascalica la sua (misteriosa) morte. Ma più verosimilmente è la lucidità che ritorna a ucciderlo come un proiettile e come confessa al dottor Gachet di Mathieu Amalric.
Schnabel manca forse l'appuntamento con Vincent van Gogh ma afferra l'idea che un artista è in parte determinato dai luoghi e dagli usi del suo tempo, mortale, irrimediabilmente mortale. Vincent van Gogh non era un essere sacro, il suo genio non era un mistero divino, la sua arte nasce dal dubbio, il dolore e il sudore, dentro l'impossibile previsione del futuro. Alle torsioni delle sue tele, il regista risponde con gli strumenti del cinema provando a suo modo a governare il caos.