di Cristina Gallego, Ciro Guerra, Colombia, Danimarca, 2018, 125′
con Carmiña Martínez, José Acosta, Jhon Narváez, Natalia Reyes, José Vicente
Alla fine degli anni Sessanta, in Colombia, nella regione settentrionale abitata dagli indiani Wayuu, che ancora vivono di pastorizia e coltivazione della terra, l'ambizioso Rapayet sposa la giovane Zaida. In poco tempo, il ragazzo convince delle proprie capacità imprenditoriali i capiclan e avvia un fiorente commercio di marijuana verso gli Stati Uniti alleandosi per interesse con una famiglia rivale. La ricchezza derivante dal narcotraffico modifica radicalmente lo stile di vita della comunità di Rapayer e conduce nel corso degli anni Settanta a uno scontro fratricida con gli alleati, che verrà combattuto cercando di rispettare usi e tradizioni di un mondo in via di sparizione.
mymovies.it. i soldi ricavati dal narcotraffico verso il Nord America mutano nel giro di pochi anni la geografia umana e sociale della famiglia di Rapayet. I muli sono sostituiti dalle jeep, i coltellacci dalle pistole, un raggruppamento di capanne da un fortino blindato, e il film stesso si trasforma in un gangster movie sull'ascesa e la caduta di un narcotrafficante.
La violenza e il calcolo economico diventano i principi regolatori di un mondo che evolve alla velocità della luce, ma che, paradossalmente, nel momento in cui si allontana dalle proprie radici si ritrova attorno alle proprie tradizioni. A differenza infatti di quanto avviene nel cinema americano - a cominciare dai film di Scorsese o dalla saga del Padrino, in cui la parabola ascendente della mafia italoamericana porta a una perdita dei legami col passato - nella guerra tra i clan Wayuu a dominare sono regole ancestrali fatte rispettare dai membri anziani. I rituali di vendetta e di compensazione del sangue compiuti in nome della sete di potere non sono diversi da quelli matrimoniali dell'incipit, ma sono di segno opposto, presagi di morte e di tragedia, e sono raccontati con modalità che non appartengono più alla natura di chi li pratica.
quinlan.it. Oro verde – C’era una volta in Colombia si delinea come una sorta di saga padrinesca in ambito etnico con piena filologia rispetto all’uso della lingua wayùu, dove niente può opporsi alla disfatta culturale davanti a modelli che s’impongono con la loro capacità di solleticare bassi istinti. Guerra e Gallego squadernano un’ammirevole sapienza di messinscena, che non disdegna sorprendenti uscite verso il conclamato cinema di genere (vi è posto pure per un “Mexican standout” di lunga tradizione, che di prima impressione ricorda le riletture tarantiniane) mantenendo però una salda e determinata significazione. Più volte interviene anche la gelida messincena di grottesche iperboli (quella bianca villa che d’improvviso si staglia, geometrica nel disegno, nell’incoerente paesaggio brullo; i pacchi di marijuana che si moltiplicano su scala esponenziale come i velivoli incaricati del loro trasporto), mentre i rappresentanti di un’antica cultura minoritaria vanno incontro a una bizzarra e stridente musealizzazione – la loro collocazione negli interni della villa.
[...] Avvincente, appassionante, potente. Si vede, e rimane la voglia di rivederlo subito. E non è poco.
Da un commento dei registi: " Senza rinunciare alla nostra tradizione cinematografica, Oro verde segna per noi un punto di rottura, dal momento che rappresenta la nostra prima incursione nel cinema di genere. Come nei lavori che lo hanno preceduto, parlando della nozione di mito, offriamo un ritratto delle persone dell'America Latina e delle loro storie, spesso ignorate. Lo facciamo giocando con i diversi generi cinematografici: Oro verde è un film noir e un film di gangster ma è anche un western, una tragedia greca e un racconto di Gabriel García Márquez. Per certi versi, il genere oggi ha la stessa funzione che aveva il mito un tempo:dare ordine e significato a un'esistenza caotica di cui ci sfugge il senso. "