di Desiree Akhavan, Usa, 2018, 90′
con Chloë Grace Moretz, John Gallagher Jr., Sasha Lane, Forrest Goodluck, Jennifer Ehle.
Cameron Post è una studentessa di liceo con un grande segreto: la cotta per l'amica Coley, della quale nessuno deve venire a conoscenza, poiché da quando i genitori della ragazza sono morti lei è cresciuta con la zia Ruth, assidua lettrice della Bibbia convinta che l'omosessualità sia una malattia. Quando dunque Cameron viene scoperta a fare sesso con Coley durante il ballo di fine anno, zia Ruth la spedisce dritta dritta al God's Promise, un centro religioso di "diseducazione" all'omosessualità.
Gli ospiti del centro, tutti adolescenti attratti da persone del loro stesso sesso, vengono "riprogrammati" partendo dal presupposto che essere gay sia peccato e che l'età adulta sia la stagione in cui ci si deve disfare di tutto quanto di trasgressivo si è commesso durante l'adolescenza.
Mymovies.it. La diseducazione di Cameron Post è basato sul best seller omonimo di Emily Danforth, che ha rivelato l'esistenza di queste realtà "educative" tollerate dalle autorità statunitensi, anche se al loro interno i diritti umani diventano "privilegi" da conquistarsi al prezzo della negazione della propria identità.
(...) il film di Desiree Akhvan, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Sundance (e lo stile del racconto è perfettamente aderente a tutti i topos del cinema indie americano), non è una tragedia perché i toni, nonostante il contesto drammatico, sono conditi di ironia: quella che Cameron e due suoi amici all'interno del campo religioso riescono a mantenere di fronte alle difficoltà.
Cineforum.it. L’assenza di un arco di trasformazione del personaggio rende il film fin troppo lineare e lo sviluppo drammaturgico segue un piano inclinato non difficile da prevedere. Resta però chiara l’intenzione della regista Desiree Akhavan (che ha tratto la sceneggiatura, scritta con Cecilia Frugiuele, da un romanzo di Emily M. Danforth) di testimoniare la contraddizione in termini e la crudeltà diffusa di istituzioni che, nella pretesa di illuminare la strada, cancellano desideri e individualità, risvegliano mostri e creano automi. La psicologa Lydia (Jennifer Ehle) ha i tratti di placida e luciferina tirannia che ricordano quelli di una guardia carceraria o dell’infermiera Ratched di Qualcuno volò sul nido del cuculo. La minaccia alla propria libertà non viene però da omaccioni in divisa o da personale medico in odor di sadismo, ma dai sorrisi liquidi e dagli sguardi protettivi e senza vita di orgogliosi e tetragoni servi di Dio.