di Stéphane Brizé, Francia, 2018, 113′
con Vincent Lindon, Mélanie Rover, Jacques Borderie, David Rey, Olivier Lemaire.
La fabbrica Perrin, un'azienda specializzata in apparecchiature automobilistiche dove lavorano 1100 dipendenti che fa parte di un gruppo tedesco, firma un accordo nel quale viene chiesto ai dirigenti e ai lavoratori uno sforzo salariale per salvare l'azienda. Il sacrificio prevede, in cambio, la garanzia dell'occupazione per almeno i successivi 5 anni. Due anni dopo l'azienda annuncia di voler chiudere i battenti. Ma i lavoratori si organizzano, guidati dal portavoce Laurent Amédéo, per difendere il proprio lavoro.
Mymovies.it. Stéphane Brizé torna, a tre anni di distanza da La legge del mercato, al sodalizio con Vincent Lindon per affrontare nuovamente una tematica che gli sta particolarmente a cuore: quella delle condizioni di lavoro ai giorni nostri. Ha dalla sua parte la garanzia della perfetta interazione, già sperimentata nel film citato, tra un attore di pregio come Lindon e interpreti non professionisti. La sceneggiatura è estremamente precisa, nulla è stato affidato al caso eppure l'esito finale è di una naturalezza straordinaria.
In questa occasione però la struttura è decisamente diversa: del privato del protagonista sappiamo poco, esattamente quanto basta. Perché al centro c'è Laurent come uomo di punta della protesta ma ci sono soprattutto le dinamiche che intercorrono tra i dipendenti della fabbrica che si vuole chiudere e la proprietà nonché quelle che si sviluppano all'interno del comitato di lotta.
Quinlan.it. In guerra è un film rilevante, non solo perché ha il coraggio e la volontà priva di compromessi di raccontare le storture del capitalismo nel pieno della sbornia di parte della sinistra francese (o pseudo-sinistra, o centro-sinistra: fate voi) per il cosiddetto macronismo, ma anche perché sceglie la via del film militante, concentrando l’attenzione solo ed esclusivamente sulla lotta degli operai della fabbrica Perrin ad Agen, nella Nuova Aquitania, per impedire che lo stabile sia chiuso. Uno sciopero a oltranza, con picchetti e in gran parte unità sindacale. (...) Certo, ci si chiede perché con una narrazione che non dimentica il punto di vista internazionalista (appoggi agli scioperanti arrivano anche da Sunderland), si sia creduto necessario trovare il cattivo in Germania, così cattivo che non accetta neanche di rivendere la fabbrica a un volenteroso imprenditore francese. Ecco, è in questi dettagli che sorge spontaneo qualche dubbio sul film, e si rivendica la statura non ancora elevata dell’autorialità di Brizé.
Filmtv.press. Una lotta sindacale, una guerra. Fatta di strategie d’attacco e di difesa, di richieste e concessioni, di territori da conquistare, come in Dell’arte della guerra di Luzi e Bellino sulla INNSE di Milano, ritmata dai comandamenti di Sun Tzu. Qui, in esergo, c’è Brecht: «Chi combatte rischia di perdere, chi non combatte ha già perso». Un manifesto. Da qui Brizé costruisce, con stralci di storie verissime, la vicenda di un’ipotetica fabbrica che un gruppo tedesco vorrebbe chiudere, lasciando 1.100 persone prive di lavoro. (...) Il punto è il dialogo. Il tentativo di. Dialogo interno, tra le correnti sindacali, tra chi vuole cedere terreno in nome dell’interesse personale e chi no, perché vuole che sia fatto quello che è giusto. E dialogo esterno, con i dirigenti, che parlano un linguaggio differente, garbato, glaciale. Capitale umano ed economia fatta a numeri. Due modi differenti di usare, pesare e dare la parola, due differenti morali, due linguaggi che non possono trovare un territorio comune.
Filmtv.press (2). Il risultato è una messa in scena di una radicalità inaudita, soprattutto per le tradizionali rappresentazioni umanistiche del lavoro, che guarda a Wiseman più che a Ken Loach e che riesce nel capolavoro di dare una forma cinematografica efficace e all’altezza dei tempi dei conflitti sociali contemporanei.