di Francesco Munzi, Italia, 2023, 107′
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Kripton indaga la vita sospesa di sei ragazzi, tra i venti e i trent’anni, volontariamente ricoverati in due comunità psichiatriche della periferia romana, che combattono con disturbi della personalità e stati di alterazione. Attraverso il racconto della quotidianità dei nostri protagonisti, delle relazioni che intrecciano tra di loro e con il mondo “adulto” composto da psichiatri, professionisti e dalle stesse famiglie, il film ci porta a esplorare in profondità la soggettività umana. La condizione estrema del disturbo mentale diventa la chiave per avvicinarsi all’abisso misterioso della nostra mente e, allo stesso tempo, possibile metafora del nostro tempo.
Ospite in sala il regista Francesco Munzi
Mymovies.it - Quella di Munzi è una straordinaria fotografia del reale che non si limita ad essere una testimonianza ma che diventa un'adesione empatica alla sofferenza, espressa con grande pudore e senza spettacolarizzazione, ma non per questo priva di cura formale e di attenzione nel costruire un racconto accessibile al pubblico. Kripton racconta la fatica di vivere di chi si fa cartina di tornasole di un disagio contemporaneo, urlo di Munch di un mondo iper accelerato e ipertecnologico mirato alla performance esteriore invece che alla crescita interiore, e la ricerca estrema di una risposta alla domanda di senso che tutti ci poniamo - soprattutto oggi.
Sentieri selvaggi - il merito maggiore di Kripton è di instradare attraverso geniali contrappunti – il lavoro espressionista su foto e video familiari – ed un discorso via via sempre più dirompente la MdP su una delle cause primarie di queste forme di malattia mentale: la famiglia borghese, vero incunabolo di inquietudini relazionali tossiche. Perché dare per irrimediabilmente perso il proprio figlio a soli 24 anni, come fa la mamma di Dimitri, è un ostacolo che nemmeno Superman può abbattere.
Quinlan.it - anziché osservarli “oggettivamente”, sperando di cogliere in loro un’asettica e presunta “verità” (ma quale, poi? E di chi?), anziché etichettarli mettendo nero su bianco diagnosi e definizioni, Munzi mette i suoi protagonisti in una posizione di grande dignità, addirittura di poter scegliere di recitare, se vogliono. Li chiama con i loro nomi. Li rende più liberi e completi, assecondando qualsiasi forma di espressione vogliano lasciar uscire da sé. Ed è forse per questo che sia loro che i famigliari si sono sentiti abbastanza a proprio agio da consentire la presenza della macchina da presa persino durante le sedute di discussione con i medici, momenti così personali ed emotivamente intensi che ci si aspetterebbe avvenissero a porte chiuse. E invece anche in questi lo spettatore viene invitato a partecipare, ancora una volta per conoscere, per capire. È quindi senz’altro un approccio “caldo” ed empatico, quello di Munzi, persino – in quest’ottica, paradossalmente – fortemente etico. E raccoglie il frutto sperato: quello di avvicinare lo spettatore a queste persone, a fargliele conoscere, a volte persino a divertirsi con loro, a preoccuparsi del loro destino e di quello delle loro famiglie.
NOTE DI REGIA
il mio desiderio principale, era trovare la voce, la lingua, per rappresentare, con il cinema, modalità estreme di stare al mondo. Esperienze, che sicuramente e specialmente appartengono ai malati, ma con cui il mondo cosiddetto normale condivide, spesso senza ammetterlo, temi, paure e domande diventate oggi sconvenienti, vergognose o proibite.
Il nostro presente, ossessivamente stimolato da un’euforia performativa che gira spesso a vuoto, tenta di estromettere dalla comunicazione e spesso anche dalla “pensabilità” le domande fondamentali, quelle universali dell’essere umano. Sembra paradossale ma sono proprio le domande che si pongono una gran parte dei pazienti, rimanendoci loro però, a differenza dei più, drammaticamente incagliati, perché troppo fragili per sostenerne il peso.
Sembra spesso che davanti alle loro domande si trovino di fronte lo specchio riflesso del nostro indecifrabile presente.
La follia mi sembra la più efficace e la più contemporanea tra le possibili metafore che illuminano il nostro tempo, visto il senso di “irrealtà” che a volte sembra aver inghiottito tutti quanti.
Non è una percezione solo soggettiva ovviamente, i dati parlano chiaro. Gli psicofarmaci rappresentano una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica, emergono forme di disagio psichico che non erano altrettanto rilevanti nella psicopatologia del novecento: disturbi di panico, borderline, anoressia, fenomeni di ritiro sociale che riguardano ragazzi sempre più giovani.
Le risposte sul perché di questo andamento e sulle possibili cure le lasciamo ai medici, agli specialisti, agli esperti.
Eppure l’accettazione, l’integrazione, la normalizzazione del problema psichico dovrebbe essere un compito dell’intera collettività. D’altro canto è proprio una delle protagoniste del film, Benedetta, a lasciarci intravedere una possibile soluzione, semplice, ma potentissima: l’importanza della vicinanza, la necessità della condivisione, la lotta all’isolamento.
Francesco Munzi