di Marco Bellocchio, Italia, 2019, 148′
con Pierfrancesco Favino, Maria Fernanda Cândido, Fabrizio Ferracane, Luigi Lo Cascio, Fausto Russo Alesi
Sicilia, anni Ottanta. È guerra aperta fra le cosche mafiose: i Corleonesi, capitanati da Totò Riina, sono intenti a far fuori le vecchie famiglie. Mentre il numero dei morti ammazzati sale come un contatore impazzito, Tommaso Buscetta, capo della Cosa Nostra vecchio stile, è rifugiato in Brasile, dove la polizia federale lo stana e lo riconsegna allo Stato italiano. Ad aspettarlo c'è il giudice Giovanni Falcone che vuole da lui una testimonianza indispensabile per smontare l'apparato criminale mafioso. E Buscetta decide di diventare "la prima gola profonda della mafia". Il suo diretto avversario (almeno fino alla strage di Capaci) non è però Riina ma Pippo Calò, che è "passato al nemico" e non ha protetto i figli di Don Masino durante la sua assenza: è lui, secondo Buscetta, il vero traditore di questa storia di crimine e coscienza che ha segnato la Storia d'Italia e resta un dilemma etico senza univoca soluzione.
filmtv.press. Nel suo biopic che confina lucidamente con la fiction da prima serata, che gioca con stilemi sorrentiniani (il conteggio in sovrimpressione dei delitti confessati), Bellocchio ci chiede di andare oltre la superficie risaputa di quelle immagini, di quell’aula bunker, delle parole straziate della vedova di Vito Schifani, agente della scorta di Falcone, usate come loop per castigare i mafiosi. Ci chiede cosa siamo noi, in rapporto a quelle immagini. E allora il film che maggiormente dialoga con Il traditore è Vincere, dove Bellocchio metteva in scena un invaghimento fatale, più che mai attuale: quello dell’Italia per il fascismo. Ida Dalser era il corpo e il sentimento dell’Italia, innamorata del duce e della sua potenza virile sino a perdere la razionalità e smarrire la propria identità, incancrenendosi nell’amore per chi “ha fatto anche cose buone” (un figlio illegittimo, nel suo caso). Dieci anni dopo, Buscetta è nuovamente controfigura della nazione intera, un “corpo Italia” e il suo è un altro legame malato, un debole che il paese si trascina appresso come un cancro: quello per la mafia. Non (solo) come entità criminale, ma come forma mentis, come abitudine alla disonestà, all’omertà, alle scorciatoie, allo snaturamento del concetto di onore. E allora le scene del maxiprocesso al cuore del film, quell’aula dove Buscetta è condotto a ripartire da sé, dalla sua precoce affiliazione, sono una lunga seduta di psicanalisi, col pentito sul proscenio a tentare di espellere la mafia dal suo modo di pensare, e le gabbie sullo sfondo dove si agitano, come un subconscio iroso, i criminali che reclamano il silenzio e l’onore. E la chiave del film è tutta in quel prefinale dove il pentito, incalzato dal magistrato, rivela che da quella mentalità non si è mai realmente liberato; e con lui l’Italia.
mymovies.it.
Marco Bellocchio è uno dei pochi registi che ancora tengono in pugno il grande schermo, con una consapevolezza profonda del vissuto cinematografico internazionale e un comando totale della propria visione personale.
Il che è evidente fin dalla prima scena de Il traditore: una festa di famiglia (e di Famiglia) che contiene in sé tanto Il gattopardo quanto Il padrino, e un prologo che enuclea tutta la vicenda a seguire, a cominciare da quella conga che è un cordone ombelicale pronto a stringersi ad ogni giro di danza. Ed è una premonizione anche lo sguardo malinconico di Tommaso Buscetta (un magistrale Pierfrancesco Favino) che vede fuori dalla finestra il figlio Benedetto (solo di nome), tallone d'Achille del padre e simbolo della sua sconfitta.
Il traditore è un film doppio fin dal titolo, perché il tradimento è tale dal punto di vista di Cosa Nostra, ma non lo è dal punto di vista del riscatto umano del "primo pentito". La doppia lettura è intrinseca alla vicenda di Buscetta, per alcuni un eroe, per altri un infame, un opportunista di comodo ma anche una cartina di tornasole dell'ipocrisia del sistema di giustizia.