di Alessio Cremonini, Italia, 2018, 100′
con Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Max Tortora, Milvia Marigliano
L'ultima settimana nella vita di Stefano Cucchi è un'odissea fra caserme dei carabinieri e ospedali, un incubo in cui un giovane uomo di 31 anni entra sulle sue gambe ed esce come uno straccio sporco abbandonato su un tavolo di marmo. Alessio Cremonini ha scelto di raccontare una delle vicende più discusse dell'Italia contemporanea come una discesa agli inferi cui lo stesso Cucchi ha partecipato con quieta rassegnazione, sapendo bene che alzare la voce e raccontare la verità, all'interno di istituzioni talvolta più concentrate sulla propria autodifesa che sulla tutela dei diritti dei cittadini, sarebbe stato inutile e forse anche pericoloso.
Mymovies.it. Cremonini sposa il racconto della famiglia Cucchi e la loro denuncia di un pestaggio delle forze dell'ordine come causa principale della morte del detenuto affidato alla loro custodia, e anche se non ci mostra direttamente la violenza ce ne illustra ampiamente le conseguenze. (...) Cremonini sceglie di non fare di Cucchi un santino, anzi, ne illustra bene le debolezze e le discutibili abitudini di vita. Stefano acconsente alla propria odissea perché si vive come una "cosa da posare in un angolo e dimenticare": e perciò minimizza, non si fa aiutare, non cerca di rendersi simpatico, alle autorità come al pubblico. Ma è proprio sull'anello debole della catena che si misura la solidità di un sistema democratico, e giustizia, carcerazione e sanità dovrebbero comportarsi correttamente a prescindere dalla stima che nutrono per i soggetti affidati alla loro tutela..
Quinlan.it. Il pestaggio da parte dei carabinieri Alessio Cremonini sceglie di non mostrarlo in Sulla mia pelle, film selezionato in Orizzonti a Venezia 75 e dedicato per l’appunto al caso Cucchi. Ed è proprio intorno a questa decisione che ruota molto del senso del film: misurato, trattenuto, commovente, efficace nel mostrare un corpo in disfacimento, ma senza spingere sulla polemica o sullo scandalo, o ancora sull’indignazione urlata. Così, più che un film di denuncia o un film-inchiesta, Sulla mia pelle appare come un racconto umanista dai contorni kafkiani sulla morte di un giovane, e sull’incapacità (e, spesso, la mancanza di volontà) da parte del prossimo di rendersi conto di quanto la situazione stesse diventando grave.
Filmtv.press. «Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte» diceva De André. E fu questo il caso di Cucchi, che sarebbe ancora vivo, però, se dopo le botte non fosse finito in una palude del diritto e dell’indifferenza. Non è stato un martirio, è stato un abbandono, come Alessio Cremonini racconta con mirabile, insperata lucidità: un fatto dopo l’altro, una decisione dopo l’altra, di richiesta negata in richiesta negata (non solo a Cucchi ma anche alla sua famiglia impotente e forse rassegnata), di silenzio in silenzio, senza nascondere la colpevolezza del condannato o sfumare l’accanimento criminale delle istituzioni. Alessandro Borghi, che lavora di nervi, di parole stiracchiate, di posture contratte, asseconda il tono esplicito eppure asciutto del film: nulla che sfugga alle inquadrature calibrate, al montaggio serrato ma non frenetico, alla costruzione di un evitabilissimo avvicinamento alla morte.
Cineforum.it. Sulla mia pelle non lancia accuse, non cerca colpevoli e non punta il dito contro nessuno, ma in maniera molto più intelligente pone sotto la lente d’ingrandimento la questione dei delitti e delle pene di uno Stato democratico del XXI secolo, spingendo a interrogarsi sul diritto che ha questo Stato (e quindi tutti quanti noi) di considerarsi espressione di una democrazia. Stefano era un tossicodipendente e forse spacciava droga – il film oltretutto non ne fa mistero – ma è prima di tutto un cittadino e quello che gli è successo può (lo si legga senza retorica alcuna) capitare a chiunque di noi. Il calvario che il ragazzo ha attraversato per sette lunghissimi giorni è un insieme di sbagli, mancanze, superficialità che in uno stato di diritto semplicemente non può accadere. Gli atteggiamenti che militari, agenti di custodia, medici, infermieri, magistrati e legali mantengono nei confronti di Stefano quando entrano in contatto con lui ne costituiscono la causa di morte ben più delle percosse – che peraltro il film non mostra. Fa rabbia notare come nel corso della vicenda che Cremonini racconta, nessuno si curi di far luce sulla natura dei lividi e delle lesioni che Stefano si porta addosso, come alla famiglia Cucchi venga impedito (più o meno intenzionalmente) di incontrare il figlio dal giorno successivo all’arresto e come le richieste del giovane di parlare con il proprio legale siano sistematicamente ignorate.
Quello che il caso Cucchi mette in evidenza e su cui il film ragiona è quindi l’emergere di una colpa collettiva e endemica. Connaturata in un apparato statale anacronistico e desueto. E auspicando che la sentenza del processo individui e chieda conto ai colpevoli delle loro azioni, la cosa più sbagliata che potrà accadere è che tutti quanti gli altri si sentano indebitamente assolti.