di Maura Delpero, Italia, Francia, Belgio, 2024, 119′
con Tommaso Ragno, Giuseppe De Domenico, Roberta Rovelli, Martina Scrinzi, Orietta Notari
In quattro stagioni la natura compie il suo ciclo. Una ragazza può farsi donna. Un ventre gonfiarsi e divenire creatura. Si può smarrire il cammino che portava sicuri a casa, si possono solcare mari verso terre sconosciute. In quattro stagioni si può morire e rinascere. Vermiglio racconta dell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale in una grande famiglia e di come, con l’arrivo di un soldato rifugiato, per un paradosso del destino, essa perda la pace, nel momento stesso in cui il mondo ritrova la propria.
Mio padre ci ha lasciati un caldo pomeriggio d’estate. Prima di chiuderli per sempre, ci ha guardati con occhi grandi e stupiti di bambino. L’avevo già sentito che da anziani si torna un po’ fanciulli, ma non sapevo che quelle due età potessero fondersi in un unico viso.
Nei mesi a seguire è venuto a trovarmi in sogno. Era tornato nella casa della sua infanzia, a Vermiglio. Aveva sei anni e due gambette da stambecco, mi sorrideva sdentato, portava questo film sotto il braccio: quattro stagioni nella vita della sua grande famiglia. Una storia di bambini e adulti, tra morti e parti, delusioni e rinascite, del loro tenersi stretti nelle curve della vita, e da collettività farsi individui. Una storia d’alta quota, con i suoi muri di neve. Di odore di legna e latte caldo nelle mattine gelate. Con
la guerra lontana e sempre presente, vissuta da chi è rimasto fuori dalla grande macchina: le madri che hanno guardato il mondo da una cucina, con i neonati morti per le coperte troppo corte, le donne che si sono temute vedove, i contadini che hanno aspettato figli mai tornati, i maestri e i preti che hanno sostituito i padri. Una storia di guerra senza bombe, né grandi battaglie. Nella logica ferrea della montagna che ogni giorno ricorda all’uomo quanto sia piccolo.
Vermiglio è un paesaggio dell’anima, un “Lessico famigliare” che vive dentro di me, sulla soglia dell’inconscio, un atto d’amore per mio padre, la sua famiglia e il loro piccolo paese. Attraversando un tempo personale, vuole omaggiare una memoria collettiva.
Maura Delpero
Internazionale -
Vermiglio è un film dell’incanto, anche quando veicola esattamente l’opposto. È forse questo l’aspetto più sorprendente ed affascinante del secondo, notevole lungometraggio della trentina Maura Delpero, Leone d’argento – Gran premio della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia, il secondo premio per importanza nella gerarchia del palmarès.
Siamo alla fine della seconda guerra mondiale a Vermiglio, villaggio di montagna in Trentino-Alto Adige, ultimo comune della val di Sole, storicamente zona di frontiera. In questo villaggio è nato il padre della cineasta e attraverso l’omaggio alla figura paterna e al luogo di nascita, emerge chiaro il ritratto di una comunità, delle sue gioie, piccole e grandi ma sempre momentanee, e delle sue grandi fatiche, amarezze, speranze troppo spesso deluse. E anche, con la stessa amorevole onestà, delle sue ipocrisie, omertà, ottusità.
MyMovies.it - Al centro di Vermiglio spiccano le figure femminili la cui scarsità di opzioni è manifesta e tangibile, ma che, come dirà Ada, non vorrebbero "essere uomini", solo avere le loro stesse possibilità. Delpero racconta la loro storia, e quella delle figure maschili loro vicine, senza manicheismi e con grande fedeltà al contesto storico e sociale in cui si muovono: nessuno qui è un prevaricatore o una vittima predestinata, tutti sono esseri umani che vivono la loro condizione come possono, commettendo errori ma anche scelte etiche individuali, messi a dura prova da una guerra che - quella sì - priva tutti di dignità umana e di futuro.
Quinlan.it - un po’ incanalandosi nel solco di Ermanno Olmi o di Georges Rouquier, Delpero attraversa produttivamente le stagioni, assecondandone i ritmi e dunque in qualche modo spezzando a sua volta una ritualità, quella dell’asettica produzione contemporanea che riduce tutto a un format predigerito. Qui si torna invece a respirare cinema d’altri tempi, grazie anche allo splendido lavoro fotografico di Mikhail Krichman (già dop per Aleksei Fedorchenko e Andrey Zvyagintsev) e a una ricerca dell’immagine che sappia contenere al proprio interno una struttura narrativa anche classica con il lavoro sul territorio, su un non-professionismo che vivifica volti, gesti, posture, e permette a Vermiglio di stagliarsi lontano dalla prassi, dall’idea stessa di confezione.