di Maria Arena, Italia, 2014, 84′
con Maria Arena
La drammatica storia di San Berillo viene riassunta nell'incipit poetico-musicale del film: il quartiere è stato da sempre considerato «una ciste purulenta da estirpare, una pustola infetta, un corpo estraneo, un bubbone maligno [...] che andava raso al suolo e senza discussioni». Il primo sgombero di San Berillo risale al 1958 («Boom boom boom, pioveva nel centro di Catania come un bombardamento, un grande esperimento di trasferimento di massa di 30mila cittadini e passa, dal centro della città alla periferia, come si fa in democrazia»), seguito in tempi più recenti dal «grande boom boom boom del 2000, la notte dell'assedio del 13 dicembre» quando «poliziotti, finanzieri, elicotteri e carabinieri murarono coi mattoni, uscio ad uscio, ingressi e accessi, porticati e portoni». Così oggi, in questa piccola zona del centro catanese, resta uno «sparuto e residuale gruppo di transessuali e puttane, una comunità solidale di femmine di corpo e di spirito, vestali e custodi dei resti rimasti».
Proprio questa «comunità solidale» è la protagonista del film scritto e diretto da Maria Arena: Franchina, Meri, Alessia, Marcella, Wonder, Totino e Santo vengono mostrati nella lenta quotidianità di San Berillo, scandita dalle feste religiose stagionali. La religione rappresenta un punto fermo nelle vite di queste persone, e di riflesso anche nel documentario. Il titolo, in questo senso, è naturalmente molto significativo e, in base alle parole pronunciate dalle protagoniste del film, da intendersi in senso del tutto positivo: la morte di Gesù redime i peccati dell'umanità, di tutta l'umanità. Franchina e le sue amiche si sentono amate solo da Cristo, in una città che fin dalla nascita le ha rifiutate e fatte sentire «carne da macello».
Cineforum.it. Gesù è morto rappresenta San Berillo come un luogo chiuso (non vediamo il resto della città né ci viene fornito un punto di vista esterno) e dimenticato, un problema che si sa come affrontare, se non con sgomberi e un impegno istituzionale di facciata (nel film le protagoniste seguono un corso per badanti e assistenti infermieri che non sembra produrre frutti concreti). L'immagine che emerge dal film di Maria Arena è quella di un quartiere povero, composto da edifici in rovina ma non privo di scorsi autenticamenti belli, un quartiere placido, o forse solo stanco, abitato da persone solidali e legate da rapporti amichevoli (non ci vengono mostrati litigi né tensioni tra le prostitute). Un'umanità buona, insomma, nella quale non troviamo tracce di rabbia o violenza, malgrado l'isolamento e le condizioni non facili nelle quali ha sempre vissuto. Lo sguardo della regista è partecipe: niente domande dirette o interviste canoniche, solo dialoghi colti nel loro farsi. Qui il documentario ha valore di testimonianza, di occhio aperto su una realtà vicina ma poco conosciuta.
Mymovies.it. Fin dall'incipit - un'inquadratura che fluttua quasi planando sui tetti catanesi - risulta chiaro come lo sguardo di Maria Arena sia refrattario all'ovvio e quindi come siano scongiurati i peggiori stereotipi nel viaggio che ci si appresta ad affrontare. Con un'attenzione sincera e una curiosità esente da voyeurismi, la macchina da presa si avvicina al privato delle "Belle" per scoprire cosa si nasconde dietro la maschera che sono solite indossare. Il loro passato, le ragioni della loro scelta di trasformazione, la loro dimensione umana e quella spirituale, di chi si sente figlio di Dio anche quando nessuno è disposto a considerarlo tale. Figure tragiche, nel senso più vicino a Euripide, o sorprendenti, come Franchina, che sfoggia una cultura non comune senza che questa risulti incompatibile con un modus vivendi apparentemente così distante.
Uno sguardo inconsueto e privo di retorica, che studia gli eccessi delle Belle senza traccia di compiacimento né di cinismo. Fino a trasformarsi in carezza, il cui affetto cresce man mano che emergono i dettagli, in un'operazione di maieutica che permette alle Belle di rivelare qualcosa di più sulla loro personalità. La regia si fa così strada, vicolo, porta accostata, intervenendo in maniera non invasiva sull'evolversi anche drastico (una delle Belle è costretta da uno sfratto a trasferirsi sulla tangenziale) della vicenda, mentre si rafforza il senso di comunità di chi sa di rappresentare, a modo suo, un quartiere e una storia. Un lavoro emblematico del percorso di crescita che sta attraversando il documentario italiano, sempre più consapevole della propria maturità e del proprio potenziale.